Una volta al mese da aprile ad agosto, e poi nuovamente da ottobre a febbraio si tiene un ritiro di una settimana dedicato alla meditazione. Viene chiamata Sesshin, e durante questa settimana tutti i normali lavori del tempio vengono sospesi. I monaci si dedicano a una meditazione così intensa che può diventare persino più faticosa del lavoro più difficile, o almeno così sembrava un giovane e laborioso novizio che frequentava e studiava presso un piccolo tempio Zen ad Aomori, all’estremo nord del paese.

Veniva svegliato alle tre in un freddo pungente, metteva in ordine il suo letto e rompeva il ghiaccio per lavarsi la faccia. Lui e i suoi compagni andavano poi nella sala principale, ornata di luci e fiori, e recitavano il cuore del Sutra la perfezione della saggezza trascendentale, recitato appunto soprattutto durante il Sesshin.

Alle quattro ritornavano nello zendo e facevano meditazione. Poi, coloro che lo desideravano, si recavano in visita al roshi per un incontro di Sanzen. Alle 5 si dedicavano 15 minuti alla colazione, riso e rafani sottaceto, accompagnati da una tazza di tè nello zendo. Dalle 05:30 alle 07:30, ancora zazen, e coloro che lo desideravano si recavano nuovamente dal roshi.

Dalle sette e mezza alle undici ancora zazen, che era talvolta interrotto da una lezione del Roshi, sempre basata su due testi: L’Hekiganshu e il Rinzairoku. A mezzogiorno vi era un altro pasto: zuppa e riso. Successivamente altra lettura dei sutra; poi, sino alle tre, zazen e sanzen. Dopo, esercizio, una passeggiata in giardino come forma di meditazione sazen. Alle quattro un altro pasto: riso e rapanelli. Alle cinque sanzen privato e poi un incontro nello zendo per zazen formale sino alle dieci. Quindi, il tè e zazen informale. Il sonno, sino alle tre del mattino successivo, era facoltativo. Durante questa settimana si faceva il bagno una volta e si avevano molte possibilità di poter incontrare il roshi. Una giornata come questa può essere molto faticosa. Sette giornate come questa possono essere sette volte più faticose.

Dopo il secondo giorno la settimana sembra senza fine. Così sembrava allo zelante novizio. Dopo aver partecipato per due giorni venne colpito da un forte dubbio.  Perché sto facendo questo? Che cosa sto facendo qui e perché? L’eco del dubbio rimbombava. Non trovava la risposta. Il dubbio era davanti a lui, razionale e intelligente. Egli lo fissava, poi lo rifiutava. Ma il dubbio non se ne andava.

E non avrebbe potuto condividerlo con nessuno. Non con gli altri novizi, perché il silenzio totale era una delle regole del sesshin. Non con il roshi, perché il novizio non sapeva come porre la domanda.

Durante i giorni che seguirono cercò di scacciarlo. Vuotò la mente, ma stava sempre li , leggermente su un lato. Come prima. Si concentrò sul proprio koan ma rimaneva li, appena fuori dalla vista come prima. Il quinto giorno andò a praticare sanzen con il Roshi. “Io ho un dubbio” disse.

“Congratulazioni” disse il Roshi.

Allora l’operoso novizio continuò e gli raccontò tutto ciò che provava. In genere un roshi l’avrebbe interrotto dopo poche parole. Questa volta, invece, il roshi sembrava ascoltare.

Quando ebbe terminato il Roshi parlò.  “Non hai nessun motivo per continuare” disse il Roshi.

Scioccato, il novizio si alzò.  “E nessun motivo per non continuare” concluse infine il Roshi.

Congedatosi, il novizio non si unì agli altri nello zendo. Andò invece in giardino. Là ci pensò su. Comprese che non aveva importanza continuare o meno, avere un dubbio o non averlo.  Non c’era un motivo per nessuna cosa. Il fatto di essere affaccendato e di avere delle aspettative l’aveva fuorviato, aveva creato il suo dubbio. Questo dubbio era forte ma il suo fondamento era incerto. Si reggeva su un’inclinazione. In realtà egli sentiva di avere un dubbio. E questo negava il significato del sesshin, che è, letteralmente, l’unione della mente alla mente, un grande livellamento, con tutti i pensieri messi insieme.

Durante i restanti due giorni diventò consapevole del dubbio e gli diede il benvenuto. Se non c’era alcuno motivo per continuare, non c’era anche alcun motivo per non continuare. Questo minimo pensiero lo sostenne.

Anzi, in qualche modo lo illuminò. Il sesshin avrebbe potuto finire l’indomani, o andare avanti in eterno. Non si sentiva più particolarmente industrioso, sebbene continuasse con gli altri,: zazen, riso, sottaceti, sanzen, lezione, lettura dei sutra, riso, zuppa, sonno.

L’ultimo giorno incontrò nuovamente il roshi.  “Sai che cosa comporta il sesshin?” chiese il roshi.

“Ti fa raccogliere i pensieri” rispose il novizio.

Il roshi sorrise.

“Ti fa disperdere i pensieri” egli disse.