Spesso le distanze più grandi non sono geografiche ma culturali, si può vivere sotto lo stesso tetto eppure essere tanto lontani da non riuscire a comunicare.
Una di queste distanze “vertiginose”, anche dopo tanti anni, è proprio quella che si percepisce tra il coaching e la normalità quotidiana. Infatti, visto dal punto di vista delle persone “normali”, il coaching è praticamente sconosciuto, ma purtroppo questo può sembrare più comprensibile di quanto sia realmente.
L’alieno e la speranza di un’Italia migliore.
Immagina un alieno venuto sulla Terra ma consembianze umane: le persone lo guardano distrattamente come fosse una faccia tra tante,normale declinazione di qualcosa già conosciuto, ne parlano pensando di sapere di cosa parlano, possono persino arrivare a dire di conoscerlo e praticarlo, senza sapere in realtà chi/cosa sia. E quando, per caso o per scelta, le persone si trovano a frequentare davvero questo alieno e lo conoscono meglio, si accorgono con un moto di panico che è altro da quel che credevano, talmente altro da confonderle e disorientarle, tutto deve essere rimesso in discussione, niente sarà più come prima.
Questo alieno, il coaching, è fatto di ascolto e supporto, partnership e rispetto della sensibilità dell’altro, mentre la “normalità” è discussione, prevaricazione, competizione. Il coaching è trasparenza, eticità, condivisione e la parola trasparenza non si riferisce sicuramente a lingerie, accordi sotto banco, intenzioni non dichiarate o al bisogno di apparire. Allo stare con l’altro, si contrappone la necessità di performance, di dimostrare di valere. Invece della fiducia nelle proprie e altrui capacità è normale la paura e la sfiducia.
Ammettiamolo, il coaching è una specie di corpo estraneo, è talmente agli antipodi della nostra cultura da richiedere che con ogni cliente si “stipuli” un vero e proprio contratto per definire con chiarezza quello che il coaching è e quello che non è, come funziona, cosa ci si può aspettare e cosa no. In un percorso di coaching non c’è niente che possa essere dato per scontato, perché il coaching si basa su fondamenta culturali non condivise dalla maggior parte delle persone. In particolare in Italia e in alcune zone del pianeta culturalmente arretrate, il coaching è solo una speranza, un timido tentativo aspirazionale di definire il prossimo gradino evolutivo, il passaggio dalla cultura della paura e del sospetto a quella della fiducia in se stessi, negli altri e nel futuro.
E se il coaching è appena una speranza, i coach, per quanto imperfetti possano essere, sono quelli che, parafrasando una celebre frase di Einstein: “Rendono possibile l’impossibile perché ne ignorano, per principio l’impossibilità”.
Ma chi sono i coach?
I coach si potrebbero descrivere in base a: quello che sembrano; quello che sono e a quello che rendono possibile. Il primo punto, l’apparenza del coach, fa ovviamente la sua differenza e molti coach si adoperano per apparire in modo funzionale alle loro intenzioni, ma per quanto sia importante nel contesto delle relazioni umane, probabilmente è l’aspetto meno utile a capire i coach e il coaching. Più interessante quello che i coach “sono”, o per meglio dire: quel che si riesce a conoscere di ciò che i coach sono. Ma quello che più conta, è conoscere i coach attraverso quello che rendono possibile. Per comprendere meglio i coach e il coaching proviamo a guardarli da vari punti di vista. Per la migliore comprensione di una realtà si deve prendere un punto di vista “altro”, quindi l’osservatore deve essere diverso dall’oggetto osservato. Insomma, noi coach dobbiamo guardarci da fuori. Per guardarsi da fuori c’è bisogno di uno specchio; per guardarsi da fuori serve la distanza nel tempo o nello spazio; per guardarsi da fuori serve la presenza, quella cosa che ti permette di essere qui, ora, consapevole.
Lo specchio
L’immagine che le persone, come uno specchio deformante, ci mostrano del coach, lo rappresenta come: allenatore, maestro, ipnotizzatore, motivatore, millantatore, quasi-psicologo, salvatore, gran figo da imitare, professionista pagato troppo, indefinibile outsider, inutile figura… Ma le persone vedono del coaching solo la sua espressione singolare attraverso ogni coach che incontrano. Il modo migliore per descrivere un coach credo sia quello che ogni cliente si porta via dall’esperienza di coaching e un modo per misurare l’efficacia del coaching sono i suoi effetti sul cliente, misurati nel tempo.