Perché diventare coach? Probabilmente questa domanda potrebbe declinarsi con le diverse professioni di aiuto e supporto alle persone: perché diventare psicologo, counsellor, medico, bagnino, postino… è solo questione di come intendiamo queste professioni. Parlando di coaching, conosco personalmente qualche centinaio di coach di nazionalità e culture diverse, tutti con una storia in comune: la maggior parte di loro a causa di un evento esterno che li ha fatti confrontare con una crisi o per impulso interiore, dopo anni spesi a costruirsi una carriera hanno scelto di diventare coach, dei liberi professionisti dedicati alla realizzazione delle persone. Penso di poter dire che la professione del coach, in qualsiasi ambito venga praticata, nella maggior parte dei casi viene scelta da chi, dopo aver praticato “altro”, decide che è arrivato il momento di impegnarsi in una professione più in linea con i propri valori e le proprie inclinazioni. D’altronde, da qualche anno ho anche evidenza di giovani laureati che tentano questa strada, immagino mossi da ideali alti e con l’intenzione di riuscire a trovare un’occupazione di nicchia. Penso che i giovani possano essere i migliori coach per i loro coetanei, ma servirà ancora del tempo prima che possano veramente vivere di coaching e servirà molto talento e resilienza.
Coach: artefici del cambiamento
Tutti i colleghi affermati che conosco sono over 40 con un’esperienza, personale e professionale, significativa alle spalle. Il coaching è una professione che attrae persone con una particolare sensibilità, spinte da sistemi valoriali definiti. Generalmente i coach sono persone che amano migliorare le cose, sentirsi artefici di un cambiamento positivo, sono in cerca di un’attività fatta di relazioni non superficiali, volte allo sviluppo, il benessere e la realizzazione delle persone. Ogni volta che ho partecipato a una riunione o conferenza di coach, da Roma o Milano, a Parigi, Ginevra, Madrid, Los Angeles, Orlando o Fort Worth, ho sempre visto una partecipazione autentica. Che si trattasse di professionisti di lunga esperienza o “matricole” ho trovato persone con un forte senso di collaborazione, persone pronte a offrire il proprio contributo per migliorare il mondo, iniziando dal facilitare i propri clienti nella realizzazione di loro stessi. Il senso di significato, unito al pragmatismo del coaching, è il vero motore di questa professione. Certo, ci sono anche coach meno idealisti e che, dando sfoggio di se rischiano di sembrare più impegnati nella soddisfazione dei loro bisogni psicologici che dello sviluppo dei clienti, ma chi può giudicare? Personalmente ammetto di trovarmi a mio agio con i colleghi che a me sembrano abbastanza consapevoli si se stessi e genuinamente al servizio degli altri e per fortuna sono la gran parte. D’altronde, quella del coach, se non hai un autentico interesse per le persone è una professione pesante. Immagina come ci si potrebbe sentire passando le ore ad ascoltare le chiacchiere di qualcuno di cui non ti interessa altro che il pagamento… immagino che potrebbe essere insopportabile. Se non si amano le persone, se non si ha genuina curiosità per gli altri, meglio non scegliere il coaching come professione.