Che si parli di persone od organizzazioni, il coaching non è per tutti. Infatti il coaching per avere un senso deve riferirsi ad un cliente con due caratteristiche specifiche: il desiderio/bisogno di cambiamento e il senso di responsabilità, cioè l’ownership della condizione di partenza e dei risultati desiderati.
Il desiderio/bisogno di cambiamento del cliente
Alla base delle azioni delle persone c’è un motivo per cui vale la pena di muoversi. Al livello più semplice tro- viamo i bisogni fisiologici che “costringono” l’uomo in quanto essere vivente biologico a impegnarsi nel nutrirsi, riprodursi, insomma cercare il piacere ed evitare il dolore. In un mondo più complesso, come quello psicologico, l’essere umano è “costretto” a impegnarsi per soddisfare bisogni più raffinati quali quello di consapevolezza di sé, il bisogno di relazione con i suoi simili o quello di varietà e senso di crescita. Bisogni che paiono posti nell’essere umano per spingerlo ad agire, a non accontentarsi mai di quel che ha raggiunto, quasi fosse destinato a diventare sempre più grande e capace.
D’altro canto, possiamo anche leggere questa situazione come il risultato, e non la causa, di come è l’essere umano. Infatti, approfittando del lavoro di Darwin e Lamarck, possiamo immaginare che tutti gli individui con caratteristiche diverse da queste non siano sopravvissuti alla selezione naturale e che queste caratteristiche si siano sviluppate con l’esperienza e trasmesse di generazione in generazione.
Che sia la causa o l’effetto, oggi un individuo o un’organizzazione che non abbia un bisogno da soddisfare di sopravvivenza o di realizzazione resta fermo e rinuncia così a ogni possibilità di sviluppo. Senza l’energia che deriva da un desiderio o un bisogno, le persone esistono ma non sono vive. Per svolgersi in modo sensato, il coaching ha bisogno di un cliente vivo o che sia disponibile a ritrovare la sua energia vitale.
Senso di responsabilità, ownership del cliente
Ammesso che il cliente abbia dalla sua la spinta al cambiamento, deve essere anche disponibile a prendersi la responsabilità di come stanno le cose e di cambiarle. Per questo credo sia importante che il coach faccia confrontare il cliente con l’esplorazione del suo “Locus of control” (Julian B Rotter -1966), ovvero della sua percezione del controllo degli eventi e della sua vita, controllo che può essere interno o esterno. Se il cliente pensa che questo controllo dipenda da circostanze esterne alla sua volontà e capacità, sarà portato a credersi vittima degli eventi e incapace di cambiare le cose. Se invece crede che il controllo risieda in se stesso, avrà la percezione di essere in grado di fare la differenza e di avere la responsabilità dei suoi risultati. Sono i suoi comportamenti a determinare gli eventi o gli eventi ac- cadono senza che lui abbia la possibilità di influenzarli? Gli obiettivi che il cliente porta, riguardano se stesso? Per esempio: “Voglio capire come posso fare per raggiungere questo obiettivo”. Oppure riguardano gli altri? Tipicamente: “Vorrei che il mio capo fosse diverso!”.
Oltre al Locus of control, l’esplorazione del senso di responsabilità del cliente può includere anche un lavoro più ampio per cambiare l’approccio mentale che sottostà al raggiungimento di un determinato obiettivo. Infatti ci sono diversi fattori interni, valori e credenze del cliente, che possono essere acceleratori o freni del cambiamento.
Nel modello di conversazione a Doppia Stella (G. D’Alessio – 2002), che uso come Executive Coach e insegno ai miei studenti, sono presenti due stelle dette: Situazionale e Valoriale. Su queste due stelle si sviluppano i rispettivi cicli di conversazione che interagiscono tra loro rendendo in modo molto efficace l’idea di questa realtà complessa, dove a fronte di obiettivi sulla performance (Stella Situazionale) si deve aiutare il cliente a esplorare e trasformare l’interpretazione del proprio sistema valoriale (Stella Valoriale). Inoltre, a supporto di quanto scritto fin qui, in questo modello è sempre previsto che il coach offra al cliente un momento per la verifica e rafforzamento del suo commitment. Nella maggioranza dei casi, in questa fase, si scopre che quello che sembrava scontato non lo è affatto, spesso emergono atteggiamenti del cliente di sfiducia nel proprio potere di realizzare quanto si è ripromesso di fare o si scopre che ha poca energia in quanto non sente veramente propri la responsabilità o il bisogno/desiderio di realizzare quel piano d’azione.
Il coaching, dicevo in apertura, non è per tutti, questo perché alcune persone non sono “vive” e tra quelle vive alcune hanno un Locus of control esterno per cui non credono di avere la responsabilità dei loro problemi e non credono di avere il potere di cambiare le cose. Questo atteggiamento ha un impatto depotenziante nell’efficacia di persone, organizzazioni e persino di intere comunità.
Il coaching non è per tutti, ma fortunatamente è per molti, per quelli che, avendo ancora desideri e bisogni da soddisfare, sono pronti a prendersi la responsabilità della loro esistenza, ovvero sono “coachable”, pronti insomma a scoprire che hanno il potere di cambiare le cose, iniziando ad ammettere che i risultati ottenuti fino a quel momento sono collegati con il loro modo di agire, con il loro modo di pensare e di essere.
Durante la relazione con il cliente ci sono diversi segnali che aiutano il coach a capire se il cliente non è coachable:
- parla solo dei suoi successi;
- non riconosce le proprie responsabilità negli insuccessi;
- respinge eventuali feedback ricevuti su suoi compor- tamenti disfunzionali;
- punta l’attenzione sulle responsabilità degli altri;
- si descrive come una vittima degli eventi e/o di altre perso- ne;
- tende ad arrivare in ritardo alle sessioni di coaching;
- non completa task e impegni che si era preso nelle sessioni precedenti;
- ha sempre qualcosa di più important e o urgente da fare che lavorare su se stesso;
- cerca di portare le conversazioni su temi e argomenti diversi da quelli definiti per il percorso di coaching.
Un Articolo di Pier Paolo Colasanti.