Vivere ogni singola esperienza consapevoli di poter scegliere come viverla.

In questa frase racchiudo l’essenza dell’essere creativi, se il suo significato ti sembra nebuloso potrebbe esserti utile leggere quanto segue, se invece hai perfettamente chiaro cosa significa leggendo potresti avere delle piacevoli conferme o utili sorprese.

 

L’idea di creatività

Ho imparato che la prima idea è sempre quella banale, la seconda quella normale, la terza va messa da parte, dopo di che siamo nel processo creativo, quello che ha dato alla luce opere famose o che fa nascere idee che cambiano il mondo. Idee come quelle che hanno generato il “telegrafo parlante” di Meucci, il primo volo dei fratelli Wright o, ancor prima, la nascita della psicologia scientifica ad opera di Wundt nel suo famoso laboratorio a Lipsia.

Tuttavia non parlerò di questa creatività e di questi grandi uomini, credo che i cosiddetti creativi – gli inventori, gli artisti – non siano necessariamente degli esempi rappresentativi di successo. Infatti molto spesso il loro modo di essere creativi appartiene a una sfera compulsiva, legata alla soddisfazione di bisogni di cui sono semplicemente vittime.

In che modo invece la creatività è portatrice di benessere e padronanza di se stessi? Nelle prossime pagine guarderemo proprio alla creatività da questo punto di vista, quello che impatta sulla maggior parte della vita delle persone, inclusi i creativi di professione.

 

Un altro tipo di creatività

Usciamo dall’idea della persona creativa come stereotipo di eccentrico, sregolato, ineffabile e straordinario personaggio e dirigiamoci invece verso l’idea che la creatività sia dote potenziale di ogni essere umano. Entriamo nel mondo psicologico delle persone comuni per conoscere il confine tra creatività e reattività.

I bisogni primari dell’individuo sono riconducibili a pochi: quello di essere amati e quello di esprimere individualità; il bisogno di sicurezza e quello di varietà. Questi bisogni, portati nella dimensione psicologica umana, hanno un’influenza determinante, generano paure e ambizioni, attitudini e approcci alla vita che diventano distintivi della singola persona e di specifiche culture.

Le persone normalmente agiscono perché stimolate e non determinano “in modo creativo” il loro comportamento, questo avviene anche a chi si ritiene capace di autodeterminazione e creatività, anzi, proprio alcune tra le persone “insospettabili” sono completamente rapite dalla loro ricerca di soddisfare il bisogno di essere amate-indipendenti-creative o al sicuro.

Ognuno di noi, per soddisfare questi bisogni, sviluppa precocemente delle strategie di comportamento che spesso sono socialmente funzionali, si impara a essere ordinati, precisi, puntuali, oppure a lavorare sodo e a essere onesti, altruisti, persino creativi! Insomma una varietà di comportamenti politicamente corretti, ma mossi da un meccanismo reattivo, quindi non gestito. Stesso meccanismo che genera anche effetti opposti e socialmente meno apprezzati, infatti, comportamenti funzionali in un contesto o in una certa misura, diventano disfunzionali in un contesto diverso o in un’altra misura.

 

Esseri creativi o reattivi

Nel mondo reattivo non c’è scelta, le persone sono inconsapevoli dei meccanismi e delle spinte che le guidano o non riescono a cambiare anche se . Qualcuno ci stimola e noi rispondiamo, come animali, stimolo risposta, niente di più. Un animale percepisce pericolo, cibo, possibilità di riprodursi e reagisce secondo un programma istintivo. Qui non c’è spazio per le scelte, la parte più primitiva del nostro cervello continua a governare parte della nostra vita esattamente come faceva milioni di anni fa, questo è utile quando le situazioni lo richiedono, purtroppo accade anche in situazioni che non hanno veramente a che fare con i temi di sopravvivenza, ma che ci appaiono tali per il significato che gli attribuiamo.

Siamo esseri creativi nella misura in cui facciamo delle scelte, altrimenti siamo parte di un programma in esecuzione, routine di codice informatico che si ripetono sempre uguali ogni volta che si preme un pulsante o si verifica una data condizione, routine che possono anche dare forma a incredibili creazioni, ma che non sono creative, almeno non nel senso che intendiamo qui.

I “reattivi” vengono spinti dai loro bisogni e dal tentativo di rispondere agli stimoli circostanti  mentre i “creativi” sono consapevoli di poter agire al di fuori dello schema stimolo/risposta, per esempio, non facendo qualcosa solo perché ci si aspetta che lo facciano, oppure offrendo cortesia a chi li offende, comprendendo che la minaccia percepita non è reale, che magari si tratta solo di un collega che cerca di fare bella figura e non di farci perdere il lavoro… queste persone non solo determinano consapevolmente le loro azioni, ma sono anche consapevoli di essere in grado di farlo.

 

Dalla parte del coachee

Il coaching – inteso secondo i canoni della International Coach Federation – con il suo approccio creativo rende disponibili per il cliente possibilità nuove e inusuali, pone le condizioni per cui un cliente possa accedere alla propria capacità creativa sentendosi capace e supportato nel farlo.  Questo si deve in particolare a tre “ingredienti”: la partnership, l’empowerment e l’orientamento all’azione.

Partnership: il coach è partner del suo cliente, si pone in una relazione paritaria che facilita confidenza e assenza di giudizio permettendo una delle condizioni essenziali perché la creatività si esprima: la libertà di sbagliare, la possibilità di fare o dire cose che potranno essere inutili o sbagliate, ma che verranno valorizzate in quanto utili al processo creativo.

Normalmente questo è impraticabile, la cultura in cui viviamo vive l’errore come un disonore e nessuno vuole sbagliare o far sapere di averlo fatto. Per esempio, nelle aziende le persone per non sbagliare portano il livello di innovazione verso il basso, difficilmente tentano strade nuove. Questo diventa paradossale quando l’azienda chiede ai suoi impiegati innovazione, ma non cambia la politica di rewarding continuando a premiare chi fa la cosa giusta invece che chi tenta nuove strade. Il coaching scardina questi meccanismi e se il coach riesce veramente a generare partnership con il cliente gli offre un’opportunità creativa di valore inestimabile

Empowerment: con questa parola si intende quel particolare comportamento del coach che fa sentire il cliente autonomamente capace e responsabile dei risultati. Anche questa è un’opportunità che raramente incontriamo nella vita di tutti i giorni, persino le persone che ci vogliono più bene, con la loro premura e presenza, rischiano di non farci sentire capaci di fare da soli, non ci offrono la possibilità di scoprire quanto siamo capaci e “potenti” perché impegnate a facilitarci il cammino. Parlo tipicamente dei genitori, ma anche di partner, manager o colleghi. L’empowerment è un’altra di quelle parole tanto citate ma poco praticate. Il coach per generare empowerment deve veramente essere scollegato da modelli genitoriali o di guida. Deve essere capace di mettere da parte le sue personali necessità di sentirsi utile o apprezzato e lavorare perché il suo cliente diventi, giorno dopo giorno, più forte e consapevole di potercela fare anche quando il coach sarà solo un lontano ricordo. Questa possibilità è realizzabile nella misura in cui il coach abbia superato i suoi comportamenti reattivi e sia emerso dal groviglio di bisogni insoddisfatti e paure che rendono tanto forte l’ego quanto debole il coach.

Orientamento ai risultati: le più belle intenzioni del mondo restano tali se non si trasformano in fatti, il coaching permette proprio questo passaggio che in altri contesti troppo spesso viene trascurato. Nel percorso di coaching e nella singola sessione, dopo aver facilitato una fase più creativa il coach supporta il cliente nella definizione di un piano d’azione che permetterà agli obiettivi di diventare realtà. Per sognare ad occhi aperti, tenere nel cassetto i progetti e lamentarsi della vita che non cambia non serve un coach, il cliente ha bisogno di essere stimolato e supportato nel perseguire i propri obiettivi in modo professionale. La maggior parte delle volte i clienti mi riferiscono che essere sostenuti nella creazione di un piano di azione permette loro di avanzare nella direzione desiderata più di ogni altro metodo o tecnica sperimentati prima.

 

Dalla parte del coach

A proposito di creatività, nel progettare percorsi di formazione per coach, una delle maggiori sfide che si affrontano è stimolare gli aspiranti coach – che spesso hanno un consolidato  modo di essere – a passare dal mondo reattivo a quello creativo. Infatti a un coach viene richiesta creatività durante tutto lo svolgimento del suo lavoro, quindi non solo deve essere “creativo” e pronto a cogliere la profondità di quanto il suo cliente porta nella sessione, ma deve anche facilitare la creatività del proprio cliente supportandolo nello spostamento dal ruolo di vittima – delle circostanze, delle persone, del destino, ecc. – a quello di responsabile dei risultati, capace di cambiare comportamento-strategia-mezzi per ottenere risultati diversi.

Uno dei momenti in cui potremmo fare i conti con la reattività del cliente è quando gli offriamo feedback. Possiamo infatti ricevere una risposta più o meno difensiva, volta a spiegare, giustificare, rendere accettabile il comportamento o il fatto rilevato. Per questo è importante acquisire delle competenze specifiche nel dare feedback e per questo i coach di maggior successo sanno dare feedback nel modo più appropriato… ma torniamo al cliente, lo abbiamo lasciato lì che si giustificava: “è successo perché io pensavo che… in realtà io sapevo che sarebbe andata in quel modo, ma volevo proprio vedere come avrebbe reagito… in fondo non mi interessava veramente quella promozione… no non sono stato io, è stata lei!”.

Premesso che nella misura in cui un cliente cerca di giustificarsi non lo stiamo facendo sentire al sicuro, è utile chiedersi cosa fa reagire così il nostro cliente e, più in generale: perché le persone hanno bisogno di giustificarsi? Nota bene il significato di questa parola: giustificarsi, rendersi giusti, cercare di essere visti come giusti. Abbiamo parlato dei bisogni fondamentali e tra questi c’è il bisogno che i nostri simili ci apprezzino. Oltre a comprendere questo dobbiamo fare i conti con il nostro bisogno di essere apprezzati, ti è mai capitato di avere difficolta a dare un feedback che sapevi avrebbe creato una reazione difensiva? Quella difficoltà probabilmente ha una relazione con il tuo bisogno di restare in una relazione positiva con le persone, di non essere giudicato “cattivo”. Altro momento della verità in cui potresti accorgerti di essere in una dimensione reattiva è quando fai al tuo cliente una domanda o un’osservazione che ti viene rispedita indietro, vedo spesso gli aspiranti coach difendere quanto detto, offrire spiegazioni per far capire al coachee che in fondo la domanda o l’osservazione aveva senso. In casi come questi il movente è reattivo, dovremmo invece superare il bisogno di essere giusti e accettare di aver detto qualcosa non pertinente. Ma ce n’è anche per chi fa spesso sessioni più lunghe del previsto. Cosa dobbiamo dimostrare? Siamo sicuri che “di più” è meglio?

 

Un dialogo reattivo

Mauro è in piedi, aspetta Paolo da mezz’ora e inizia a essere veramente impaziente. Il suo collega non è mai puntuale, ma questa volta sta tardando più del solito. Proprio mentre Mauro pensa di andarsene arriva il collega: “Paolo, sono qui ad aspettarti da mezz’ora! Possibile che tu non sia mai puntuale?”.

Paolo, trafelato dice: “Oggi c’era un traffico bestiale. Mai visto così!”

Mauro non ci crede e immagina sia una delle tante scuse per cui Paolo è noto tra i colleghi: “Mi potevi almeno avvertire, sono stato qui ad aspettarti in piedi pensando che arrivassi da un momento all’altro!”. Mauro è abbastanza arrabbiato, Paolo replica offeso: “Potevi anche sederti mentre aspettavi!”.

In genere queste discussioni sono sassi che diventano valanghe, meglio capire cosa c’è veramente sotto e cambiare approccio.

Ormai è chiaro, dialoghi come questo appartengono al mondo reattivo, sarebbe tutto più semplice se Paolo, di fronte alla reazione di Mauro che non si sente rispettato, chiedesse semplicemente scusa comunicando al collega che ne comprende il punto di vista e l’emozione. Anche se esprimiamo una certa creatività nell’inventare scuse, questo comportamento è reattivo non creativo.

 

Cosa fare?

In che modo, come persone e come coach, possiamo passare da una dimensione reattiva a una creativa? Cioè, in che modo possiamo esprimere una libertà di scelta nelle nostre azioni? Come passare da reagire ad agire?

Questo è un processo che richiede la comprensione dei meccanismi e della posta  in gioco, il desiderio e la scelta di cambiare e tanto, tanto lavoro, magari con un buon coach.

Questo comprende l’essere consapevoli di quello che accade fuori e dentro di noi, riuscendo a far tesoro dei feedback che riceviamo, richiede impegno specifico e la disponibilità a farsi aiutare.

Come coach dobbiamo considerare che essere creativi per noi è fondamentale perché fa la differenza tra la simulazione e la performance, tra una persona che si sforza di sembrare un coach e un coach che fa bene il suo lavoro.

Rileggendo adesso la frase di apertura trovi qualche nuovo significato?

 

 

Un Articolo di Pier Paolo Colasanti.