Prima di parlare di come decliniamo la parola “coaching”, vorrei riconsiderare proprio quest’ultima. Usano il termine coaching, professionisti che operano molto diversamente tra loro, per qualità, tipo di attività, intenzione e risultati. Per esempio, si fanno chiamare coach molti consulenti, trainer, psicologi, ma anche personaggi meno professionali che manipolano, blandiscono, danno consigli discutibili o peggio, truffano i propri clienti.

Ancora oggi scegliere il giusto coach non è facile e sarebbe impossibile se non esistessero il passaparola (sempre che arrivi da un esperto) e delle credenziali riconosciute da qualche associazione.

Stesso problema lo affronta chi vuole fare un corso per diventare coach, il numero delle scuole cresce velocemente e aumenta anche la difficoltà di orientarsi. Maggiore è lo sviluppo della professione in termini di fatturato e maggiore l’ingresso sul mercato di operatori abituati a lavorare in modo massivo, con marketing molto efficace, ma senza know how specifico e deontologia.

Se negli anni ’90 i pionieri del coaching avessero inventato un nome, invece di usarne uno che già esisteva, per esempio: “Briting”, oggi forse ne avremmo l’esclusiva. Che bello sarebbe! Nessuno penserebbe che alleniamo una squadra sportiva o ci confonderebbe, solo per fare un esempio, con personaggi pubblici discutibili e mentalisti vari.

Ma, evidentemente, questo era il destino del coaching, questa indefinitezza ci costringe a essere “open source”, open-minded e senza un nome univoco dietro cui ripararci. Siamo spinti a costruire credibilità, affidabilità e a dialogare con tutti… che poi, a pensarci bene, è una ricchezza, va bene così.

 

Il mio coaching è differente

“Coaching is coaching”, per la prima volta sentii questa frase più di dieci anni fa, a un meeting internazionale di coach e mi torna in mente ogni volta che affronto questo argomento. Penso che continui ad essere una frase giusta, in sostanza si usano tanti nomi per chiamare la stessa cosa, ma è anche vero che le definizioni hanno sempre una loro utilità.

Il coaching viene classificato secondo diversi criteri:

  • tipologia di clienti o situazioni a cui è destinato – executive, personal, life, business, career, sport, group, team, organizational, ecc.;
  • modello o approccio utilizzati nello svolgimento – situazionale, trasformazionale, ecc.;
  • medium – telefonico, in presenza, in videconferenza;
  • durata delle sessioni – instant, laser, slow, ecc.;

Oltre a questi criteri ce ne sono altri naturalmente, molti legati al singolo coach o alla coaching company che decidono di dare un nome originale al proprio operato e cercano distintività.

 

Insomma, definire il coaching è utile, aiuta i clienti a distinguere a scegliere almeno la tipologia di coaching, anche se questo non è sufficiente a offrire garanzie sulla qualità.

Ogni volta che diamo un nome specifico alle cose, queste acquistano un’identità più precisa, quindi, in teoria, potremmo accogliere favorevolmente ogni termine che rende specifico un particolare tipo di coaching, tuttavia questa rincorsa alla distinzione ha un prezzo.

 

Il prezzo della segmentazione

Come detto, l’identità del coaching è fragile, creare una frammentazione della sua identità davvero può aiutare il pubblico a riconoscerlo meglio?

Capita che mi si chiedano chiarimenti sui diversi corsi di coaching, se sia meglio un corso di Life o di Executive coaching… la mia risposta è sempre la stessa: il coaching non è un’attività e nemmeno una tecnica, il coaching è una professione, ma è soprattutto uno state of mind, una condizione interiore, che se l’apprendi puoi essere il coach di chiunque, in qualunque ruolo o contesto.

La sostanza del coaching è riferita alle persone, siano esse manager di alto livello, imprenditori, politici, attori, cantanti, studenti, madri e padri di famiglia o single in cerca di compagnia. Quando ci troviamo di fronte a un cliente, stiamo interagendo come coach, con un altro essere umano.

Un cliente potrebbe credersi un dio, perché ha tante persone che lo seguono o perché guadagna tanto, potrebbe credersi una nullità perché non lo segue nessuno e fa fatica a guadagnarsi il suo posto, ma il nostro lavoro è ricordargli il suo essere un umano, a prescindere da chi lo segue e da quanto guadagna.

Il coach stimola il cliente a entrare nell’arena della verità umana e a guardarsi come non ha mai fatto, gli fa scoprire l’acqua calda che, però, cambia tutto.

Quale che sia il nome che diamo al nostro coaching, assicuriamoci che significhi qualcosa di sensato e che non inganni nessuno.

 

 

Un Articolo di Pier Paolo Colasanti.