Dell’individuazione e della beatitudine

Rovistando tra alcune mie carte risalenti al secolo scorso -parlo degli anni ’90- ho trovato un articolo di giornale firmato dal filosofo Umberto Galimberti. Ritagliato con cura e messo da parte, è rimasto in un armadio per decenni ed eccolo che ora mi torna utile!

Galimberti, dopo aver citato “Diventa ciò che sei” di Nietzsche, proseguiva:

“È bene che i giovani sappiano che l’individuazione, propiziata dal distacco, è l’unico destino degno della nostra vita”.

L’individuazione, che si riferisca al principium individuationis o meno, penso che nasca dalla consapevolezza di sé e dell’essere individuo, consapevole della propria separazione dal resto del mondo. Separazione che, come vedremo più avanti, è un bisogno, ma anche una paura per l’uomo. Non a caso, nello stesso articolo, Galimberti parla anche della “nostalgia della beatitudine” riferendosi al momento primo in cui eravamo ancora uniti al corpo di chi ci ha generati, che se la vediamo dal punto di vista metafisico è la ricerca di tornare a essere parte di un’identità più grande della nostra.

 

Coach solitari e associati

Prendendo spunto dal Galimberti mi piace immaginare che, mentre come essere umano sta affrontando questi aspetti dell’esistenza, un coach deve preoccuparsi anche della sua individuazione professionale, subendo contemporaneamente l’attrazione verso la “beatitudine associativa”, perché più diventa coach e più avverte il bisogno di far parte di un più ampio disegno professionale.

Insomma, l’attività formativa e professionale del coach porta verso l’individuazione, l’attività associativa alla ricerca della dimensione transpersonale del coaching. Certo, in realtà molti coach nell’attività associativa cercano solo una propria convenienza, networking, visibilità, opportunità di business, ma qui preferisco puntare l’attenzione sulle motivazioni valoriali più alte dell’associazionismo.

 

Il coaching in solitaria

In principio, molti anni fa ormai, ero un “lone coach“, coach per scelta, solitario senza sapere di esserlo. Avevo i miei clienti e l’apprezzamento che mi offrivano generosamente al punto da inviarmi amici e conoscenti, ma nessuna occasione per confrontarmi con miei pari sulla qualità del mio lavoro. Tutto sommato ero soddisfatto di quello che facevo anche se il fee era un decimo del mio attuale. Alle spalle avevo un paio di corsi di PNL, un percorso di studi pertinente e mi facevo forte delle esperienze di sviluppo spirituale già avute. Qualche volta, mi veniva la curiosità di sapere se, e quanto, facessi bene il mio lavoro, ma all’epoca i coach erano così pochi in Italia e quei pochi… vatti a fidare! Chiaramente questi erano gli alibi e le mie paure dell’epoca.

Dopo qualche anno di “coaching in solitaria”, per caso feci la scoperta che esisteva la Federazione Italiana Coach -quella che adesso si chiama ICF Italia- e, dal mio punto di vista di allora, pensai che si trattasse del solito sistema adottato da qualche coach furbo per darsi importanza e credibilità, non mi interessava, anzi. Qualche anno dopo, grazie all’incontro con Giovanna D’Alessio, invece fui in grado di apprezzare il senso di quell’organizzazione, diventandone parte e poi coach certificato e persino membro del consiglio direttivo.

 

Il vero valore dell’associazione

Oggi le associazioni in Italia si sono moltiplicate e ogni volta che ne vedo nascere una nuova mi chiedo: “Con tutte le associazioni esistenti che bisogno c’era di un’altra?” È una domanda a cui non ho ancora trovato risposta o forse la risposta ce l’ho ma non è politicamente corretta.

Comunque so che per arrivare da un punto A a un punto B, esistono infinite traiettorie e non si può indovinare dove arriverai da dove sei ora. Forse, proprio grazie all’attività associativa, anche quando impropria o ridondante, si può arrivare ai migliori risultati.

D’altra parte ho conosciuto tanti colleghi con un sincero desiderio di contribuire e rendersi utili, colleghi che riescono a unire magistralmente la ricerca di una soddisfazione personale con gli interessi di categoria, ma anche dell’evoluzione dell’essere umano – che ce n’è tanto bisogno!

Il più grande valore di far parte di un’associazione è avere colleghi con cui confrontarsi e sentirsi parte di un disegno più grande, fare ricerca, crescere insieme, supportandosi e stimolandosi a vicenda.

Sono convinto che se vuoi crescere come persona, come professionista e se vuoi sviluppare il tuo business, essere un lupo solitario non paga.

 

Il condominio culturale

A volte puoi provare fastidio ad avere dei vicini di casa di cui non condividi lo stile o l’educazione, ma penso anche che insieme a quei vicini puoi costruire un futuro migliore, più bello e più utile per tutti. Ovviamente le differenze ci sono, ma diverso non significa per forza migliore o peggiore degli altri, preferisco piuttosto cercare le evidenze di quali sia il miglior metodo, la migliore tecnica o stile e poi trarne le conseguenze. Conseguenze che comunque difficilmente potranno essere definitive e universali visto che il coaching è agli albori, la psicologia non è ancora una scienza perfetta e il comportamento umano è ben lungi dall’essere predittibile.

 

I due bisogni opposti

A proposito di psicologia, due bisogni di base di noi esseri umani sono il bisogno di autonomia e indipendenza e, all’opposto, il bisogno di appartenenza e di essere amati. Possiamo rappresentarli come due piatti di una bilancia in un equilibrio altalenante.

Se ci pensi, da bambino avevi bisogno di sentirti accudito, di sentirti parte della tua famiglia, ma poi volevi anche affermare la tua individualità e autonomia, esplorare nuovi spazi. Riesci a trovare un paio di evidenze di questi bisogni anche nella tua vita di oggi?

Tra questi due poli ci dibattiamo tutta la vita in un equilibrio instabile.

Per una buona parte della mia adolescenza sono stato un lupo solitario, controcorrente e con un motto sempre presente: “se qualcuno l’ha già fatto posso anch’io, se non l’ha fatto mai nessuno posso essere il primo. Questo principio è evidentemente basato sull’ottimismo che per me è stato funzionale ma, come potranno intuire i più attenti, si sviluppava anche in un mondo solitario e dicotomico, c’ero io e il mondo esterno, che non mi capiva o cercava di ostacolarmi. Persone di maggiore esperienza mi dicevano: “bisogna mangiare un po’ di tutto!” e io diventavo vegetariano… e trent’anni fa in Italia quando dicevi di essere vegetariano ti chiedevano che malattia avessi!. “Studia che ti servirà per trovare un lavoro!” e io mi inventavo un’azienda da una passione. Genitori, insegnanti, parenti e amici, in sostanza mi suggerivano di trovare il mio posto nel mondo, ma a me questo mondo sembrava troppo piccolo e puntavo gli occhi verso l’infinito.

Probabilmente tutti gli adolescenti si sentono così, forse anche tu hai vissuto qualcosa di simile. Ma quanti hanno avuto consapevolezza, mezzi e determinazione, o l’opportunità per dare veramente vita a quelle potenti forme indefinite che si agitano nel fondo del cuore? Come si è poi sviluppato quel germoglio umano che eri nella tua prima giovinezza?

Ecco, penso che un po’ sia normale essere soli tutta la vita, in fondo abbiamo bisogno di essere soli, ma abbiamo anche bisogno di stare in compagnia, ci dibattiamo tra queste due polarità: “Lasciami in pace!” e “Ho bisogno di te!”, restare in lucido equilibrio può richiedere un certo sforzo, ma ne vale la pena, invece la cosa più disfunzionale è restare bloccati in una delle due posizioni. Tu dove sei?

 

In difesa o aperti al mondo?

l nostro lavoro è generoso con noi coach, tempo fa mi è capitato i lavorare con il CEO di un’azienda molto importante. Persona giovane, brillante e di successo, ma con la possibilità, e la necessità, di essere dieci volte più capace ed efficace nelle relazioni interpersonali. I suoi obiettivi ci portarono ad affrontare proprio lo stesso tema che ho vissuto tanti anni fa io: lui e il mondo là fuori pronto a coglierlo in fallo. Cento persone presenti a un evento dove lui è l’ospite d’onore? Tutte pronte a scoprire quando e come farà un errore! Almeno così lui le immaginava e questo bloccava la sua capacità espressiva.

Rivedere in lui il me stesso del passato è stata un’esperienza importante, mi ha fatto collegare alcuni puntini e vedere in modo ancora più netto il disegno che sto descrivendo. Ovviamente anche il mio cliente ha avuto la fortuna di incontrare un “se stesso” del futuro e ha potuto scoprire che oltre alla “configurazione difensiva” poteva utilizzare anche la “configurazione aperta”, dove accogli la possibilità che il mondo la fuori sia pronto ad apprezzare ogni tua parola guardando al meglio di te.

Pensando ai colleghi, alle associazioni e alle varie iniziative in questo settore, mi piace avere una configurazione aperta rimanendo capace di assumere quella difensiva solo quando serve, non é detto che io riesca sempre a farlo, ma adesso so come voglio essere. E tu come sei? Come vuoi essere?

 

Un Articolo di Pier Paolo Colasanti.